Cosa significa “fare coming out”? Chi è davvero convinto che ci sia bisogno di dimostrare una certa cosa? Perché c’è bisogno di dimostrarla?

Coming out, mi sta dicendo il dizionario d’inglese, significa uscire allo scoperto e onestamente credevo che in una comunità civile una cosa del genere fosse tra le più inutili.

Quando mia nonna era ancora viva, mi raccontava spesso una storia di quando era bambina. Vicino a dove abitava lei c’era una coppia che aveva tre figli. L’ultimogenita era una ragazzina gracilina che all’età di sette anni si infermò completamente, finendo in sedia a rotelle. Immagino si trattasse di una di quelle malattie invasive e neurodegenerative per le quali ancora oggi non abbiamo trovato una soluzione, tipo SLA e cose molto simili. Insomma, mia nonna mi raccontava che i genitori di questa ragazzina, da quando si ammalò, iniziarono a tenerla sempre chiusa in casa, senza neanche permetterle di affacciarsi alla finestra o alla porta di casa e senza permettere a nessuno di andare a trovarla. Se ne vergognavano e la bambina visse tutta la sua infanzia e adolescenza nella sua camera fino a quando, a circa vent’anni, morì.

Si trattava degli anni Trenta e l’integrità della genia di ogni persona era enfatizzata dal periodo fascista in corso, che osannava la purezza, la forza, la baldanza, l’omogeneità verso alcuni valori e ai quali si doveva rispondere con enfasi. Non c’era posto per gli storpi.

Era anche il periodo in cui gli handicappati, quelli che oggi chiamiamo più gentilmente diversamente abili, venivano vessati coi peggiori insulti, emarginati e abbandonati a loro stessi in istituti, sanatori e altre strutture simili e ugualmente inquietanti.

Ammettiamolo, qualche passo avanti lo abbiamo fatto, anche grazie al coming out di queste persone che, uscendo finalmente tra la gente, hanno fatto vedere al mondo che non camminare sulle proprie gambe, o essere vittime della poliomielite, o aver subito amputazioni, soffrire di alopecia, essere albini, avere sei dita nelle mani e nei piedi, soffrire di Trisomia 21… non significa essere incapaci di interagire col resto del mondo. Molto spesso certe condizioni non includono nemmeno il ritardo mentale!

Stephen Hawking era affetto da sindrome degenerativa del motoneurone (una cuginetta di primo grado della SLA) e comunicava tramite sintetizzatore vocale, eppure è stato uno degli scienziati più brillanti della nostra epoca.

Lui ha fatto coming out fin da subito, continuando la sua vita, i suoi studi, sposandosi un paio di volte, avendo tre figli e fregandosene dei limiti che questa società civilizzata mette continuamente di fronte a persone non propriamente integre.

Da qualche tempo stiamo cercando di abbattere alcune barriere architettoniche tra le più limitanti, e non solo architettoniche.

Io e mio figlio minore, ad esempio, abbiamo fatto coming out per ciò che riguarda la nostra dislessia. Io l’ho fatta troppo tardi e quindi il periodo della scuola è stato per me una gran faticaccia, ma posso vantarmi di aver sempre avuto un forte spirito d’arrangiamento e potrei persino ardire nel ritenermi una precursora (suvvia, scherzo! Si dice percorritrice) delle mappe cognitive attuali. Ciò non mi ha limitato dal diventare scrittrice e seguentemente editor e aprire un’Agenzia Editoriale. Per mio figlio invece c’è un iter diverso e quindi visite neuropsichiatriche, logopedistiche e alla fine il rilascio di un certificato per permettergli di accedere a percorsi specifici per BES e DSA. Io me li son dovuti sognare! Correvano gli anni Settanta, neanche si sapeva cosa fosse la DSA.

Insomma, alla fine della fiera si può certamente dire che chiunque tra noi potrebbe avere almeno un paio di coming out da fare su qualcosa di suo, una caratteristica, una tendenza e per le quali pretendere rispetto. Ma allora cos’è ’sto coming out? A cosa serve? A rendere pubblico cosa?

Una diversità.

Già questo indica che non siamo poi così maturi, civilizzati, né tantomeno elastici di vedute.

Coming out lo associamo all’essere omosessuali dichiarati pubblicamente. E qui continuo a perplimermi.

Cioè, devo dichiarare al mondo che sono gay? Perché no, ma perché?

Forse perché ci sono barriere architettoniche o di pensiero che mi limitano?

Sì? Bene, sia, e la responsabilità di chi è? Mia che sono gay o della società che mi reputa malata?

Siamo pronti a violentare scalinate antiche mille anni per permettere a un disabile in carrozzella di accedere a un museo tramite rampa e concordo con la scelta, mentre diamo addosso a un gay dandogli di deviato e costringendolo a quel coming out con cui poi appagheremo il nostro sarcasmo, andando ferocemente in culo a quel politically correct con cui ci piace sciacquarci così tanto la bocca.

La vedo una pretesa piuttosto stupida, non siete d’accordo?

Voglio terminare con una frase di Giovanni Storti, del trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo:

“Certi nostri sketch non si potrebbero più fare. La comicità è un modo parallelo di vedere la realtà, un modo dissacrante e alle volte un po’ cattivo. La linea tra il garbo e il cattivo è sottile, ma penso che il politicamente corretto non sia applicabile alla comicità, anzi la distrugge.”

A rafforzo di ciò vorrei ricordare che il professor Hawking ha prestato la sua figura (se non la sua persona) a diversi film sarcastici. Cercate la sua filmografia, scoprirete succulenti camei alla sua condizione!

Inoltre non tutti voi lo sapranno, agli altri non credo freghi una beneamata ceppa, ma io sono bisessuale!

Felice coming out a tutti e buone vacanze!


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